Una tragedia a lungo dimenticata quella degli esuli giuliano-dalmati, da commemorare ogni anno nel Giorno del Ricordo (10 febbraio)
di Danilo Spiro
Ci sono storie che preferiremmo nessuno ci raccontasse mai, storie di uomini e donne che vissero, risero e sperarono e che tutt’a un tratto sparirono inghiottiti dall’oscurità delle grotte carsiche, senza fare più ritorno. Sono storie devastanti che, tuttavia, devono essere raccontate e, soprattutto, ascoltate. La sorte degli infoibati è rimasta a lungo taciuta sia dalla politica che dai mezzi di comunicazione ed è raro che si abbia un’idea chiara riguardo ai fatti che sconvolsero le vite di centinaia di migliaia di nostri concittadini, durante e subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Perché è così difficile parlarne? Cosa ha spinto la storiografia a sorvolare questi fatti? Come mai la politica si è sempre dimostrata impacciata e ipocrita nell’affrontare la verità? Le risposte sono scomode, è vero, ma vanno ricercate: e fortunatamente c’è chi – ancora – si dà la pena di farlo.
La prof.ssa Giuseppina Mellace, grande esperta dell’argomento e ospite assidua della nostra scuola, sta per pubblicare un libro che potrebbe essere la giusta fonte dove trovare alcune delle risposte ai tanti quesiti sul caso lasciati aperti. Innanzitutto, come ha esordito giustamente la professoressa, occorre conoscere la storia per poter giudicare equamente la vicenda.
Le foibe sono cavità naturali presenti nella zona del Carso, con un ingresso a strapiombo nel terreno. Sono voragini avviluppate nell’oscurità che si aprono nella crosta terrestre e che, se si vuole, somigliano molto all’idea dantesca dell’entrata del mondo infernale. Infatti, questi enormi “buchi neri” possono essere profondi anche centinaia di metri e alla loro base ci sono spesso piccoli bacini d’acqua e torrenti sotterranei. Questi luoghi naturali sono divenuti tristemente famosi – famigerati – perché, negli anni fra il 1943 e il 1947, lì sono stati gettati, vivi e morti, quasi diecimila italiani.
La prima ondata di violenza esplose subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i titini torturarono, massacrarono e poi gettarono nelle foibe circa un migliaio di persone. Ma la violenza aumentò nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupò Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe di Tito allora si scatenarono e a finire dentro le foibe non furono soltanto fascisti: l’obiettivo del neo regime jugoslavo era decapitare la vecchia struttura sociale, il cui vertice era occupato da italiani, per costruire una nuova grande patria. Fu una carneficina che testimoniò l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia tutti coloro che potevano essere d’intralcio per la realizzazione del suo piano.
La persecuzione proseguì fino a quando, nel febbraio del 1947, l’Italia ratificò il trattato di pace che pose fine alla Seconda Guerra Mondiale: l’Istria e la Dalmazia vennero cedute alla Jugoslavia. È allora che una tragedia tutta locale irruppe prepotentemente e inesorabilmente nel panorama nazionale: trecentocinquantamila persone, all’improvviso senza patria, si trasformarono in esuli.
Scappavano dal terrore, principalmente verso l’Italia, la nostra Italia, che in quell’occasione non seppe essere giusta e dare degna accoglienza alla sua gente in difficoltà. Si voltò dall’altra parte per non guardare negli occhi i testimoni viventi di atroci sofferenze e infausti destini.
Tutto ciò costituisce inevitabilmente una delle pagine più nere della storia italiana ed europea. Eppure, fino a poco tempo fa, regnava il silenzio più totale sull’argomento ed emergeva la generale convinzione che, in fondo, fosse meglio dimenticare. Non è un fatto insolito che in Italia si preferisca voltare lo sguardo dalla parte opposta al problema e lo si ignori semplicemente. Le vittime della cieca e furiosa violenza del regime comunista di Tito sono state dimenticate e ancora oggi si fa fatica a tornare con la memoria a quegli eventi. È difficile ricordare, per esempio, le circa quattrocento ragazze infoibate, le cui storie danno vita al libro della prof.ssa Mellace, sostanzialmente perché ricordarle comporterebbe da parte nostra, degli Italiani tutti, la necessità di un’autocritica che evidentemente preferiamo sempre rimandare. Abbiamo paura degli scheletri nel nostro armadio – questo, sì, della vergogna – e continuiamo ad insultare il ricordo delle vittime con noncuranza, superficialità o, addirittura, con il negazionismo.
Il passato è l’unico tempo certo, perché essendo già trascorso non può mutare. Sta a noi ora imparare dagli errori della storia, in vista di un futuro quantomeno incerto, cercando almeno di far chiarezza nella nostra coscienza nazionale, che finora non ha saputo far altro che affiggere lapidi nelle più grandi città.
Noi siamo il paese delle lapidi, ma queste non bastano più: sono un inizio, ma per rendere una degna celebrazione alle migliaia di donne, uomini e bambini che sono stati assassinati nelle foibe occorre innanzitutto iniziare seriamente e sistematicamente a fare opera di informazione, di cui l’incontro di oggi può essere considerato uno straordinario esempio, per far sì che questa ferita lasciata aperta dal silenzio della storia – se non si rimarginerà mai completamente – almeno abbia un po’ di sollievo.
nella foto: Tempio nazionale dell’internato ignoto, Padova