Un’Europa che sappia fare politica, che sappia mettere in comune per il bene di tutti, per il bene di ognuno: questo è l’ideale che ciascuno di noi auspica… Ma la realtà?
di Lorenzo Cirelli
L’Unione Europea di oggi non è più quella del trattato di Maastricht del ’93. Se i principi fondamentali di pace, giustizia e sicurezza sono rimasti sostanzialmente inviolati, i pesi e le misure sembrano essersi spostati su un’economia liberale che favorisce sempre e sempre di più l’ ”élite” e mai il ”popolo”. Questa incrinatura, iniziata negli anni ’90 ed iperbolizzata dal tracollo economico del 2008, ha portato ad uno scoraggiamento nel credere nelle istituzioni drammatico, con una conseguente scissione élite-popolo.
In questo clima di sfiducia hanno proliferato interdetti i Populismi. Secondo il politologo olandese Cas Mudde, come riporta Internazionale nel numero del 15 febbraio, da un articolo di Peter C. Baker per il Guardian, ”il populismo non è solo demagogia e opportunismo: è una thin ideology, un’ideologia esile composta da poche convinzioni di fondo. Primo: nella società la divisione più importante è quella antagonistica fra ”popolo” ed ”élite”, generalmente corrotta. Secondo: tutti i populisti credono che la politica debba essere un’espressione della ”volontà generale”, un’insieme di desideri che si presumono condivisi per puro buonsenso da tutte le persone comuni” (Internazionale n.1296, 15-21 febbraio). Questo sentimento oggi sembra dilagare e, se l’astio nei confrondi di un’élite ”elitaria” cresce, sembra assottigliarsi invece l’identità del singolo cittadino, massificato in un popolo che non si sa più auto-distinguere e quindi emancipare. Ma questo sentimento non ha origini recenti: il termine ”populismo” esisteva già nella prima metà del ‘900 ed ebbe largo impiego a sfondo politico in tutto il suo susseguirsi.
Il Populismo: radici antiche e nuovi impieghi
Le radici degli ideali populisti si possono però ritrovare ancora più addietro negli anni: già nella seconda metà del ‘700, durante il periodo della rivoluzione francese, quando ancora in Francia governava la monarchia, la dicotomia élite-popolo era molto forte e rimarcata. Questi ideali verrano poi però riformulati dalla visione giacobina della rivoluzione, sfociando nelle violenze e nei soprusi che la storia ci riporta.
Il termine ”populismo” nasce invece in Russia nei primi del ‘900 durante il regime zarista di Nicola II. Il Populismo (narodničestvo) era un movimento politico e intellettuale russo che esaltava la classe contadina (e quindi proletaria) che ha avuto grande apprezzamento durante la prima guerra mondiale, raggiungendo ampio consenso popolare e facendo quindi scoppiare la rivoluzione bolscevica.
Anche Mussolini, influenzato da questi ideali, nella sua militanza di destra si fece capo dei – tristemente – famosi Fasci di Combattimento, gruppi armati incaricati di sedare, spesso in modo violento, gli scioperi sindacali degli operai, con il fine di guadagnare l’appoggio elettorale ed economico degli industriali. Questa mossa, solo apparentemente anti-popolare, aveva il fine di portarlo al governo e di ribaltare quindi l’establishment dell’epoca, corrotto e autocratico. Questa visione fu poi ripresa anche dal regime nazista, che non solo si poneva contro la classe dirigente, ma anche contro l’élite ebrea tedesca ed europea tutta, vera colonna portante dell’economia finanziaria e bancaria.
Ma allora, oggi, possiamo ancora parlare di Populismo? Ha senso integrare un concetto che fu di rivoluzioni e dittature in un contesto così pacifico e democratico come l’Europa? Beh, sì. Si è già parlato di UE come di un sistema bancario, finanziario ed economico, ma mai sociale. Manca ormai una politica con e per le persone, che sappia riconoscere le opinioni di tutti, senza voler rappresentare, come direbbe Mudde, una ”volontà generale” che ormai non esiste più. Ce lo indica la stessa etimologia: Politica viene dal greco politikos, a sua volta da polis, ”città”. Qual è la radice comune di questi due termini? Pol-, da polloi, ovvero ”molti”. Oggi la realtà socio-culturale è variegata, sono diverse ”le classi”, non si può più parlare di una divisione netta borghesia-proletariato come ai tempi di Marx: ci confondiamo in substrati sociali che, troppo stretti, non ci sanno più fornire identità solide e tangibili. Quel singolo popolo che i movimenti populisti millantano, sono cento, mille popoli: il compito dell’UE è saperli rappresentare tutti, organicamente, nella loro complessità e diversità. Insomma, il ruolo dell’Europa dev’essere fare politica.
Si prenda a titolo d’esempio la vicenda dei Gilet Jaunes, che Edoardo D’Alessandro ci ha saputo ben raccontare nel suo articolo del 20-01-2019: una protesta partita dal ”basso” dove una larga fascia di popolazione (quella periferica e rurale) è insorta, non sentendosi rappresentata ma soprattutto ascoltata, contro il premier-presidente Macron. Come scrive D’Alessandro: ”la politica, da sempre, si occupa dei macro-problemi della nazione, dimenticandosi però di altri argomenti, ritenuti minori e di poca importanza, ma che per la gente sono problemi di primaria importanza da affrontare ogni giorno”. Ecco, si immagini quindi, sulla base dell’esperienza di una singola nazione, quanto possa essere difficile rappresentare ed ascoltare tutte queste voci diverse in un organo internazionale. Difficile? Sicuramente, anzi, difficilissimo. Impossibile? No, soprattutto se ci si crede, come ci credeva Antonio Megalizzi, il reporter italiano ucciso nell’attentato dell’11 dicembre a Strasburgo.
Sondaggio
Abbiamo chiesto ai ragazzi cosa ne pensassero dell’Unione Europea facendo due semplici domande:
1) Ti senti rappresentato dall’Unione Europea?
2) Ti piace l’attuale idea d’Europa?
E queste sono state le risposte:
In alcuni casi si è presentata poi alla prima domanda una risposta incerta: ”Non lo so”, ”Non saprei”, ”Nì”. Solo dopo un poco di tempo ed un’attenta riflessione l’interrogato si è risolto, dando la sua risposta, perlopiù negativa. Questi casi sono avvenuti sovente con gli studenti di quarto, che di recente hanno partecipato all’incontro ”EU Back to School” con un funzionario dell’Unione Europea.
L’episodio è significativo: quanto poco è bastato a mettere in dubbio una visione negativa sicura e dominante (70%)! Con un solo incontro, semplicemente parlando, un solo funzionario è riuscito a far vacillare il cieco – ma evidentemente non sordo – pessimismo di noi giovani.
Conclusioni
Pertanto crediamo che la prima battaglia che l’UE debba vincere, il primo fronte sul quale si debba schierare, sia quello della comunicazione. Gli europei, per sentirsi tali, hanno bisogno di parole, per conoscersi e confrontarsi. Se l’UE vuole davvero combattere il Populismo, se davvero vuole sconfiggere quel Sovranismo becero che disgrega, che allontana, deve parlare e deve far sentire tutti coinvolti. ”L’Italia agli italiani, l’Europa agli europei” urlavano i militanti di Forza Nuova al corteo di Prato per il centenario dalla fondazione del partito fascista, come se gli italiani non fossero di fatto cittadini europei.
Volendo tornare ancora al Graecorum, ”comunicare” ha due radici: koinoo e koinoneo. La prima sta a significare ”trasmettere informazioni”, la seconda ”mettere in comune”. Se quindi il primo termine indica una semplice e sterile consegna di un’informazione preesistente, finita e inamovibile, il secondo è ben diverso: il dibattito non è un ostacolo della conoscenza, e si possono trovare sempre punti di vista trasversali alla visione regia – che regia quindi non è – semplicemente mettendola in comune e discutendola. Ecco, crediamo che oggi serva un’Europa che faccia più koinoneo che koinoo. Come? Questo, nel nostro piccolo, non lo sappiamo. Ci mettiamo nelle mani di Zygmunt Bauman, che sicuramente può dire cose migliori meglio di noi. Scrive in ”Oltre le nazioni. L’Europa tra sovranità e solidarietà” (Laterza, 2019): ”La maggior parte di noi, ad eccezione di pochi insigni poliglotti, non ha accesso a gran parte delle lingue europee, e ciò rappresenta un handicap e una perdita per tutti. Un enorme patrimonio di saggezza umana è stato tramandato in storie narrate in dialetti inintelligibili. […] Quanta saggezza in più avremmo, e quante possibilità in più di compiere la nostra missione nel mondo, se una parte dei bilanci dell’Unione Europea fosse destinata a finanziare la traduzione della letteratura di tutti gli Stati membri e a renderla disponibile sia in forma stampata che su tutti gli altri mezzi di comunicazione comunemente utilizzati oggi… Personalmente sono convinto che il tesoro incredibilmente ricco costituito dalla parte più pregiata dell’esperienza e del pensiero dell’Unione Europea sarebbe il miglior investimento per il futuro dell’Europa e per il successo della sua missione.
Il futuro dell’Europa politica dipende dalle sorti della cultura europea. E questo a sua volta dipende dalla nostra padronanza dell’arte di trasformare la differenziazione culturale da passiva in attiva, di vedere in essa non qualcosa da tollerare ma da esaltare, di accettarla come risorsa anziché bollarla come impedimento.” Aggiungendo sul finale: ”In assenza di comunicazione reciproca non c’è modo di sottoporre le proprie fantasie a verifica empirica, e diventa praticamente impossibile elaborare un modus co-vivendi soddisfacente per entrambe le parti, che permetta di trasformare in risorsa quella varietà culturale delle città che oggi viene considerata un peso.”
Si vede subito come una proposta del genere spaventi: se la cultura è di tutti, qual è la mia? Quale sarà la cultura tedesca, quale quella italiana o francese? Non si rischia, insomma, di perdere ancora di più un’identità nazionale già martirizzata dal consumismo e dalla globalizzazione moderna?
La linea è sottile, e valicarla sarebbe pericolosissimo. Non è poi diverso da quello che succede con i migranti: se l’integrazione porta ad una mescolanza indistinta dove non si distinguono più le diverse etnie, dove non so più chi sono io, allora è davvero così positivo integrarsi?
Beh, noi crediamo di no. Dobbiamo mantenere uno spirito patriottico saldo, senza che però questo sfoci in un nazionalismo fanatico, che, nel corso della storia, sappiamo averci portato a milioni e milioni di morti. In fondo l’Europa è nata per impedire nuove guerre, e ciò è possibile solo se siamo aggregati da uno spirito di fratellanza che ci fa stare insieme. Non si combattono i fratelli.
Chiaramente poi serve maggiore equità economica, più posti di lavoro, economie (possibilmente circolari, come ci consiglia Greta Thunberg) a favore di tutti e non elitarie. Tuttavia agli europei non serve – solamente – un’Europa delle banche, non servono l’Euro o la BCE, serve, per sentirsi tali, un’Europa che sappia fare politica, che sappia mettere in comune per il bene di tutti, per il bene di ognuno