Il nuovo libro di McCurry riporta i celebri capolavori del fotografo americano e racconta ai suoi lettori nuove storie attraverso una serie di imperdibili immagini inedite
di Elena Ranocchia
Il mondo nei miei occhi. È così che si intitola il nuovo libro di Steve McCurry, il fotografo contemporaneo probabilmente più conosciuto e amato da pubblico e professionisti.
Il contenuto del volume, ora disponibile sul mercato, contiene una serie di seicento fotografie, un terzo delle quali inedite, collezionate durante i suoi quarant’anni di viaggi in giro per il mondo, a documentare storie dell’umanità sotto ogni punto di vista: culture, tradizioni, religioni, gioie ma anche sofferenze, disastri naturali e guerre delle diverse etnie che popolano la terra, dai ghiacciai himalayani ai villaggi dell’India, fino ai conflitti delle terre di Iraq, Iran, Filippine, Cambogia e Afghanistan.
Con questo volume, il fotografo offre un’imperdibile occasione di scavare l’interiorità del suo animo attraverso numerose immagini che non sono esclusivamente quelle che lo hanno reso famoso. Gli scatti di McCurry sono noti per i loro colori vividi, per i volti particolari e i paesaggi, talvolta esotici o misteriosi.
Nonostante questi elementi identificativi che fanno di McCurry un’icona in tutto il mondo, tuttavia, nel lavoro del fotografo c’è di più: la vera caratteristica che rende le sue immagini uniche e facilmente riconoscibili ad un’attenta analisi, è la presenza di un giusto equilibrio tra estetica e morale che porta l’occhio dell’osservatore all’interno del momento grazie ad un’accorta perizia compositiva e che lo rende intensamente partecipe per la forte capacità narrativa.
Per parlare maggiormente della fotografia è necessario accennare alla vita di questo grande personaggio. Steve McCurry nasce il 23 aprile 1950 in Pennsylvania: studioso di fotografia e cinema, ha conseguito una laurea in teatro nel 1974.
Dopo i suoi primi lavori come fotografo sulle riviste The Daily Collegian e Today’s Post, la sua carriera inizia a fine anni ’70 a partire dal viaggio che lo conduce per una traversata illegale tra Pakistan e Afghanistan: è qui che il fotografo freelance conosce gli orrori della guerra e cattura una serie di difficili scatti che lo renderanno famoso in tutto il mondo a partire dal celebre “ritratto della ragazza afgana” del 1984.
Il lavoro di Steve non è stato propriamente quello di fotoreporter, il suo scopo è ben presto diventato quello di immortalare le storie dei civili costretti a resistere giornalmente a bombardamenti e disastri: “quando dissi loro di essere un fotografo, mi chiesero di seguirli per documentare quella che, poi, sarebbe diventata una guerra civile”.
La sua fotografia, come afferma egli stesso, narra storie diverse da quelle cronache riferite dai media e dai telegiornali: il suo è il punto di vista del popolo che vive gli orrori della guerra e che lo rende vero protagonista, perché – come recita la celebre canzone di De Gregori – “è la gente che fa la Storia”.
Il motivo per cui gli scatti di McCurry sono così efficaci nel loro intento comunicativo è questo: ad una perfetta e studiata composizione di colori e luce si unisce la forza narrativa dell’immagine, che è incentrata su quella che sembra una continua ricerca di humanitas, di comprensione e solidarietà (come la intendevano i latini), negli sguardi dei soggetti.
È per questo che la foto della ragazza afgana ha avuto un enorme successo. “Mi accorsi subito di quella ragazzina […]. Aveva un’espressione intensa, tormentata e uno sguardo incredibilmente penetrante”. Come dichiara il fotografo stesso, con una luce e uno sfondo ideali egli ha colto l’espressione determinata e coraggiosa di una ragazza di appena dodici anni, bella, ma dal volto sporco e logorato dalla fatica che si è acceso in uno sguardo irremovibile.
Dopo 20 anni, Steve McCurry, deciso a ritrovarla, ha intrapreso una grande ricerca che lo ha condotto a fotografare nuovamente Sharbat Gula, divenuta moglie con dei figli, la cui immagine da giovane profuga era ormai famosa in tutto il mondo grazie alla copertina del National Geographic, come simbolo significativo dei conflitti afgani dell’epoca. A questa comprensione dell’altro, negli scatti di Steve McCurry si aggiunge un altro importante messaggio: mostrare come le somiglianze tra gli uomini si ritrovino anche tra le diversità.
Quello di McCurry sembra uno sguardo volto a denunciare i crimini e le ingiustizie umane, ma allo stesso tempo è anche un occhio che si apre con speranza e meraviglia di fronte alle divergenze dei popoli e alle particolarità degli esseri umani
in apertura: Steve McCurry, Sharbat Gula 1984-2002