Il coronavirus è una cosa che ci accomuna tutti, e tutti ci lamentiamo delle restrizioni che ci ha imposto. Ma siamo sicuri di sapere come lo vivono “gli altri”? E se noi fossimo, in fondo, dei fortunati…?
di Giulia Nenne Athie
Covid-19, è questo il nome della malattia che ormai tutti noi conosciamo bene, che ci ha segregati in casa e che non si sa quando riusciremo finalmente a debellare. Il Coronavirus ci ha recluso ed ognuno di noi ha vissuto nel proprio appartamento, da solo o con altre persone, e questo ci rende facile scordare che c’è un mondo al di fuori della nostra realtà.
Anche io per il primo mese della quarantena avevo quasi dimenticato che ci sono persone che vivono in maniera diversa da come viviamo noi.
Il virus non ha colpito solamente la Cina e l’Europa e anche in questi posti – che per qualche motivo sembravano rientrare all’interno della bolla che mi ero creata – non tutti vivono nella stessa maniera.
Immigranti, senzatetto, persone in case abusive prove di comfort, con problemi mentali o in paesi in via di sviluppo: queste sono alcune delle persone che più si trovano in situazioni di grave rischio.
Per gran parte della quarantena era come se fossi nell’occhio di un ciclone, bendata e sola. Tutto intorno a me si muoveva, ma io non lo recepivo: ero tranquilla, chiusa nella mia casa, con i miei genitori, il mio giardino e i memes su twitter.
Sono finalmente uscita da questo stato quando mio padre mi ha detto che i casi in Senegal stavano aumentando. Questa notizia mi ha destabilizzata, perché metà della mia famiglia vive nel nord del Senegal, lontano dagli ospedali più attrezzati a trattare il Coronavirus e in un paese che non segue con piacere le restrizioni del governo.
Sono molti i paesi africani in cui gli ospedali si possono contare sulle dita di una mano e molte volte questi non hanno le strutture tecniche adatte ad affrontare il virus.
Tra le cose che mi hanno fatto prendere coscienza delle varie realtà del Covid-19 di fondamentale importanza sono stati i media. Sono molti i video e le foto che ho visto di cui mi piacerebbe parlare, ma tra quelli che mi hanno più colpita c’è un video sugli attivisti in Brasile, in cui veniva mostrata la facilità con cui il virus si diffonde nelle favelas e la scarsa capacità del presidente Bolsonaro di fornire un minimo di servizi.
Un altro video che mi ha mostrato qualcosa a cui fino ad allora non avevo mai pensato aveva come soggetto la vita dei carcerati nelle prigioni, in questo caso in America. Il video era stato girato da uno dei carcerati che era riuscito a intrufolare nella prigione un telefono. Il carcerato era stato rinchiuso in uno stanzino con un malato di coronavirus, dopo esser stato avvertito di prepararsi a cose molto brutte dall’unica infermiera che era venuta a visitare il malato.
Penso spesso a tutti coloro che stanno soffrendo la pandemia tra i confini di due paesi e nei campi dei rifugiati, argomento sul quale mi è capitato di leggere un articolo l’altro giorno; l’unica informazione che mi ha veramente trasmesso è che queste persone sono praticamente abbandonate a se stesse, e in molti non ce la faranno.
Per quanto utopistico sia, mi piacerebbe credere che almeno nel mio paese tutto vada bene e che “tutto andrà bene”, così come vedo scritto nelle bandiere appese ai balconi sui quali, alle sei di sera, si canta “Bella ciao”.
Invece da noi i problemi ci sono, ma diversi. Abusi, depressione, ansia, disparità dei sessi e bollette. Da quando la quarantena è iniziata non siamo stati chiusi in casa solo con i nostri genitori ed i nostri amici, ma alcuni sono stati rinchiusi con chi un tempo ne ha abusato o magari potrebbe sempre farlo.
Essere confinati in casa, non poter vedere nessuno, l’interruzione della routine o altre mille ragioni, senza però la possibilità di uscire dalla propria abitazione e dai propri pensieri non aiuta di certo coloro che si trovano a dover fare i conti con la propria salute mentale. Anche il problema economico non è da ignorare, con numeri altissimi di persone che non hanno più uno stipendio.
“Siamo tutti nella stessa tempesta, ma in barche diverse”: non mi ricordo dove io abbia sentito questa frase, ma è stata proprio questa a ispirarmi a scrivere questo articolo, perché troppe volte, anche in buonafede, ci dimentichiamo che non ci siamo solo noi, che tutti abbiamo dei problemi e che a volte questi possono essere più grandi dei nostri.
E specialmente in questo momento in cui aiutare è difficile, almeno essere consapevoli è quasi d’obbligo